Di solito, non amo i ritorni. Quando vado in un posto nuovo preferisco dirgli addio. Salutarlo come se non dovessi vederlo mai più. Mi sembra, così, di poterlo tenere con me per sempre, nel pathos di una perenne attesa di niente. Invece qui, al Cuccaro Club, ho deciso di tornare. Ci sono capitata la prima volta seguendo gli ideatori di un documentario sull'Alta Via dei Monti Liguri. Non avevo nessuna aspettativa particolare, perché di solito amo i paesaggi esagerati: l'oceano, i deserti, i ghiacciai, le lunghe strade americane dell'America più selvaggia, dall'Illinois alla California. Cosa avrebbe potuto darmi allora la Val di Vara? Appena sono scesa dalla macchina l'ho capito subito. Il respiro. Lì, tra quei monti così vicini, ho trovato panorami insospettabilmente vasti, e ho cominciato a respirare. Mi sono sentita i polmoni, come se fossero un braccio o una gamba. Più mi guardavo intorno più l'aria entrava dentro, e soffiava via un lungo inverno di fumo, e buio, e rumori, come una fuliggine che mi si fosse attaccata a ogni organo e della quale mi stavo finalmente liberando. Portare un luogo dentro di sé dovrebbe voler dire questo: trasformarsi in quel luogo. E a me, lassù, è accaduto. I miei brochi erano rami, sottili rami di pino nero, braccia lunghe e secche di una foresta che punta dritta al cielo. I miei polmoni erano prati morbidi su cime ondulate, prati da correre, polmoni come gambe, gambe come prati, prati come sentieri fino a qualche metro più su, dove tutto sembra finire e invece ricomincia: davanti un altro monte, un altro sentiero, e ancora monte che rincorre monte (sulle sue gambe di prato e di polmoni e di respiri), ma ancora non arriva l'orizzonte, c'è prima una discesa là in fondo, e in fondo a quel fondo il contorno sbiadito di una città, e poi, ancora, il mare. Forse allora, solo quando la sguardo avrà spaziato fino a lì, si potrà parlare di orizzonte - ma a quel punto sarà entrata così tanta aria nei polmoni, e avrà spazzato via così tanta fuliggine, che non si avrà nemmeno più voglia di parlare. Perché l'altro, grande tesoro che ho trovato nei dintorni del Cuccaro è il silenzio. Cosi, a quei pini, a quei prati, a quegli orizzonti senza voce sono ritornata, e so già che ancora tornerò. Del resto non ho bisogno di dirgli addio per tenere quel posto dentro di me. Mi basta chiudere gli occhi, pensare a un pruno in fiore, starmene in silenzio, e respirare, respirare così forte da sentire i miei polmoni, e i miei bronchi come i rami di un pino nero contro il cielo di fine aprile - tornerà l'inverno fuligginoso di città, certo, ma intanto io mi porto dentro tutta la speranza di una primavera a venire.
top of page
bottom of page
Comments